Der Wintersportort Gröden war einer der Brennpunkte des Coronavirus. Wie in Ischgl hat man auch hier gezögert, den Laden dichtzumachen. Warum das Krisenmanagement trotzdem besser lief.
Kultur
Verde come virus
Aus ff 15 vom Donnerstag, den 09. April 2020
L’Italia del virus è un tritacarne che mescola umori avvelenati a desideri di rinnovata unità. Ma dalla crisi si esce solo in modo globale.
Per parlare della situazione che ormai da settimane, e chissà per quanto ancora, ci tiene e ci terrà prigionieri dentro le nostre case, occorrerebbe una prosa tentacolare, in grado di infilarsi in ogni anfratto della discussione, di seguire le anse delle paure, di mimare il ritmo sincopato delle incertezze. In pratica, ci vorrebbe un rap à la Alberto Arbasino, il grande scrittore recentemente scomparso. Qualcosa di spezzato, si diceva, che comprima le durate delle note e frantumi l’andamento del brano (del rap), rendendo la scansione ritmica singhiozzante. Un singhiozzo che può albergare in un pianto, ma anche in una irrefrenabile risata (o di quando si piange e si ride insieme, piuttosto).
Un tritacarne di immagini e di suoni, velocissimo. E avremo il Presidente del Consiglio in collegamento diretto su Facebook con l’aria grave (riuscita, chissà perché, persino sexy a qualche reclusa di istituzionali appetiti) a snocciolare i gravissimi provvedimenti della restrizione totale (“chiudere tutto”, in sovrimpressione proiettare Matteo Salvini che reclama “aprire tutto”), e gli ammonimenti all’Europa, e la fuga di notizie che anticipa la fuga verso i treni dal nord al sud, l’immigrazione invertita e perversa, e le fotografie dei mezzi militari che si portano via le bare di Bergamo, le tendopoli sanitarie fuori dagli ospedali, e dentro gli ospedali infermiere che dormono esauste, la testa reclinata sulla tastiera dei computer, senza ovviamente scordare l’infinita saga dei tamponi, delle mascherine (che non ci sono, poi ci sono, poi si possono fabbricare con un rotolo di carta Scottex, o sostituire con gli scaldacollo fatti venire dalla Provincia autonoma di Romania, ma aspettiamo anche quelle che ci arrivano dalla Cina, dalla Russia, insieme ai medici cubani). Quindi certamente il Papa reverendissimo che cammina da solo per via del Corso, con la scorta che lo segue a distanza, o celebra messa, sempre solo, sotto la pioggia, in una piazza San Pietro adattata a scenografia per il futuro “The lonely Pope” girato dal nostro Oscar Sorrentino. Cose così. E altre mille ancora.
L’Italia del virus è un tritacarne sincopato che mescola umori avvelenati e verdi (una filologa e, come si autodefinisce, ballerina di tip-tap, Annie Hall, traducendo Uguccione da Pisa, Derivationes, anni ´60 ca. del sec. XII, ha pubblicato la scoscesa ricostruzione etimologica della parola “Virus”, facendola procedere da “Vireo”, cioè diventare verde: “E da vireo deriva poi il neutro indeclinabile virus, ovvero ’veleno’, che è aptoto, ovvero si trova soltanto ai casi nominativo, accusativo e vocativo; da cui virosus, a, um, velenoso, con il comparativo; e, per composto, virulentus, a, um, cioè pieno di virus, e si fa il comparativo, e ne deriva il femminile virulentia, e cioè l’infezione da veleno”). Umori verdi, ma che possono al limite risultare rossi, pensando ai conti, al disastro dei conti, al precipizio economico che si apre ai piedi del grande stallo. E infatti sta qui, esattamente in stallo, la domanda su quando ne usciremo, e come ne usciremo, se ne usciremo. Qualcuno sa la risposta?
Nell’attesa, le strade sono deserte, ma l’aria è pulita (inspirare-espirare-per-non-spirare). Gli animali, è stato detto, osano dove avevano da tempo disimparato ad osare. È il mondo liberato dagli umani, che quindi riverberano negli spazi interiori, finora rimasti piuttosto sgombri, e in quelli invece intasatissimi dei social, dove circolano con la nefandezza di sempre le opinioni più bislacche, le teorie complottiste, gli sberleffi e i meme, o si organizzano sempre più stanchi flash-mob, tutti sul terrazzo alle sei per suonare, cantare, fumare, e ovviamente farsi il selfie: “Un momento! Devo sistemare gli occhiali, il berretto, il foulard, la barba, la pipa, il sigaro, la sigaretta e il telefono e il gatto. E la faccia, dov’è?”(Alberto Arbasino, Paesaggio italiano con zombi, da Deposito cartacce, pag. 355). È quello il momento in cui ritornano le bandiere del “chi fa da sé fa per tre”, usciamo almeno dall’Euro se non si può uscire di casa, e le infinite recriminazioni contro i nostri cari amici di sempre (in primis la Merkel, german as usual, già ex culona-inchiavabile), perché nulla sarà come prima, però i nostri saldi principi pur saldi dovranno rimanere. O no?
Stringiamci a coorte. Siam pronti alla morte? Potrebbe risultare fatale. Come ha affermato Rony Hamaui: “In questo contesto le risposte di politica economica – ma non solo, si pensi a quelle sanitarie – non possono che essere globali. Questo vuole dire sospendere qualsiasi guerra commerciale o valutaria, gestire in maniera coordinata la libertà di movimento di uomini e beni alle frontiere, mettere in atto un sistema di aiuti internazionali e soprattutto un impegno dei paesi con situazione dei conti pubblici più solidi a colmare con politiche fiscali espansive l’enorme spinta deflazionistica che si sta creando. Mai come in questo momento il coordinamento e la solidarietà internazionale sono indispensabili e creano un effettivo beneficio” (Risposta globale a epidemia globale, www.lavoce.info). Speriamo che il sonno del virus produca buone ragioni.
Gabriele Di Luca
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